Aprì gli occhi e guardò la finestra. Era buio ancora. Una sensazione fastidiosa iniziò a farsi largo nel torpore. Notò le coperte ammucchiate ai piedi del letto e un brivido di freddo lo fece sussultare. Le raccolse, se le poggiò sulle spalle e andò alla finestra. Le gambe erano leggere e quasi insensibili in un punto che non riusciva bene a distinguere sotto al ginocchio. Dell’alba ancora nessuna traccia. L’orizzonte era scuro come tutto il resto. Nemmeno una pennellata di quei colori chiari che precedono il mattino. Fissò il bosco di fronte al loro rifugio e aspettò che ne uscisse qualcosa. Non ne usciva mai niente. Poldo dormiva nella cuccia vicino alla catasta di legna e dal piano inferiore arrivava saltuariamente lo scoppiettio dei ceppi sul fuoco. Scese le scale. Sesto era seduto sulla poltrona di fronte al camino e guardava le fiamme. Sembrava non essersi accorto di lui e così si mise a guardare il fuoco a sua volta. La consistenza dei tizzoni incandescenti gli fece pensare a una coppa gelato piena di lava e gli sarebbe piaciuto assaggiarla con un cucchiaio. Sesto si voltò verso di lui e lo fissò per un attimo con gli occhi arrossati dal fuoco e dal vino.

Ci sono ancora dei ceci e un quarto di vino, se hai fame – disse, tornando a guardare l’interno del camino.

Ciabattò fino in cucina e si versò due cucchiai di brodo caldo, poi prese il barattolo di ceci e rovesciò quello che ne rimaneva nel piatto. Mangiò tutto con calma e raccolse il brodo con un pezzo di pane secco. Erano due mesi che viveva in quel rifugio con Sesto e non sapeva niente di lui, se non che aveva avuto altri progetti in passato e le sue mani erano state giovani e i suoi occhi rivolti al domani. Qualcosa si era portata via la sua speranza e non riusciva a capire se potesse essere stata una donna, come succede sempre e come era successo anche a lui. Non parlavano mai. Quando il ricordo di lei iniziava a farsi largo nella sua testa, però, Sesto sembrava capirlo e senza dire nulla e con gli occhi arrossati gli allungava la brocca del vino. All’inizio era intimorito dai silenzi, dalle mani rotte dal freddo e dagli occhi consumati dal calore e dal fumo del camino, ma ora che aveva imparato ad apprezzarli e a coglierne le parole non dette non sarebbe riuscito a immaginare un’altra compagnia. Sesto era stato sconfitto e aveva deciso di ritirarsi e aspettare tra i monti la fine della partita. Lui voleva solo scappare. La vita che lo aveva portato a quel punto ormai le ricordava solo lei, quello che sarebbero potuti diventare e quello che non erano riusciti ad essere. Non voleva sacrificare la vita, ma sentiva che glie ne serviva un’altra. Era uscito di casa con la speranza che un giorno avrebbe avuto un motivo per tornare e alla madre che a stento tratteneva le lacrime e gli chiedeva dove fosse diretto aveva solamente risposto: Lontano.

Bevve un bicchiere di vino e ne accompagnò il passaggio fino allo stomaco chiudendo gli occhi. Iniziava a schiarire e Poldo era sveglio in attesa della colazione. Sesto stava sparpagliando la brace per soffocare le fiamme. Era ora di uscire. Lasciò cadere la coperta che gli copriva le spalle e meccanicamente si infilò il maglione e il giubbotto, prese il berretto e uscì, mentre Poldo entrava approfittando di uno spiraglio tra lo stipite della porta e la sua gamba. L’erba umida bagnava gli scarponi a ogni passo. Arrivò al recinto della stalla che erano fradici.

Aspettiamo che l’erba si asciughi – lo ammonì Sesto, uscendo di casa con il cane al seguito.

Si ricordò della volta in cui Sesto gli aveva parlato delle pecore e dell’erba bagnata; del fatto che bisognava aspettare che fosse asciutta per portarle al pascolo, altrimenti sarebbero state male e avrebbero passato la notte a belare in preda ai dolori di stomaco. Cercò il tabacco nella tasca del giubbotto e si sedette sulla staccionata per rollare una sigaretta. Poldo corse fino al bosco, cercò qualcosa e tornò indietro senza averla trovata, si fermò ad annusare le sue scarpe e continuò la corsa quando capì che non c’erano carezze per lui lì in quel momento. Alzò gli occhi verso il Bove e il sole gli disegnò le rughe sul volto. Era ancora troppo presto per vederla volare. Da qualche tempo un’aquila si era accasata sul monte e si lasciava guardare volteggiare, quando il sole non era ancora troppo alto o troppo basso.

Fanno i nidi a metà del monte. Non li fanno mai in cima. – gli aveva spiegato Sesto qualche giorno prima – Così se trovano una carcassa pesante abbandonata in qualche vallata su in alto, possono portarsela più facilmente alla tana giù in basso. 

Le sue giornate erano riempite dall’attesa di quel volo. Quando usciva per portare le bestie al pascolo, e sulla via del ritorno, teneva sempre lo sguardo rivolto al Monte Bove e alla croce che qualcuno, tanti anni addietro, aveva conficcato sulla cima.

Sesto guardò il sole coprendosi gli occhi con la mano e strappò un ciuffo d’erba per passarsela tra le dita callose. Scansò il muso di Poldo che stava annusando il suo ventre, bofonchiò qualcosa di simile a un’imprecazione e si incamminò pesantemente verso la stalla.

Prendi il bastone. Muoviamoci. – disse.

Aveva sempre la fissa del bastone, Sesto. Non si poteva girare senza in montagna, diceva. Un cane da pastore che ha voglia di attaccar briga, un cinghiale, o anche solo un fattore ubriaco con troppa rabbia da sfogare; si potevano fare questi e altri incontri al di là del bosco e non ci sarebbe stato nessuno tra te e la sconfitta, se non il bastone. Ogni volta che esci di casa qua in mezzo diventi una preda, ma grazie a questo – gli aveva detto Sesto carezzando la superficie levigata del bastone la sera che era arrivato al rifugio con lo zaino in spalla e le gambe tremanti per il freddo e per la stanchezza  – puoi essere una preda difficile; puoi far paura. E quando qualcuno ha paura non è più tanto cacciatore. A diventare preda si fa in un attimo.

Le pecore erano ammassate dietro al cancello con il muso sollevato e le narici spalancate ad annusare l’aria oltre la recinzione. Appena furono libere corsero fuori dalla stalla, con la solita speranza di libertà che poteva leggersi nei loro occhi tutte le mattine, e la terra tremò sotto gli zoccoli. Sesto teneva aperta la porta della stalla e la richiuse solo quando ne uscì l’ultima bestia, Poldo già correva insieme al branco e faceva il suo per tenerlo unito, mentre lui camminava lento picchiando il bastone a terra ad ogni passo. Staccò un ramoscello da un albero, lo smussò e se lo infilò in bocca. Doveva sempre tenere qualcosa in bocca quando camminava nel bosco, per riempire il vuoto lasciato dalle parole. L’andare frenetico delle pecore si era calmato e con esso l’abbaiare del cane. Poteva sentire i passi lenti e irregolari di Sesto alle sue spalle. Continuò a camminare e a mordere il bastoncino, per poi succhiarlo e sentirne il sapore amaro sulla lingua; e rimorderlo e camminare ancora.

Il bosco si apriva su un prato, dove gli animali potevano pascolare liberi ai piedi del Bove. Poldo iniziò a gironzolare e a controllare il perimetro del pascolo e, quando costatò che era tutto tranquillo, si lasciò cadere nello spicchio d’ombra sotto una roccia. Lui si sedette ai piedi di un albero, si tolse il legno dalla bocca, rovistò nella busta del tabacco e ne posò una manciata su una cartina, la rollò e se la girò per un po’ tra le labbra prima di accenderla. Sesto arrivò solo allora e andò a sedersi da qualche parte senza neanche guardarlo. Sentì Poldo abbaiare da lontano e alzò gli occhi verso il monte. L’aquila volava in cerchio e sembrava perdere quota per poi risalire, in un inspiegabile spreco di energie. Come ogni volta, senza chiudere gli occhi e continuando ad ammirare il suo volteggiare, lasciò liberi i ricordi di correre nei suoi pensieri e in un attimo lei fu di nuovo lì. Naìma, con gli occhi verdi e il seno eccessivo, mentre si insinuava nella sua vita con la camminata leggera di chi non sa dove andare. Lui, con il passato infranto e il futuro distante, che la lasciava entrare e ci parlava per ore sotto le coperte, senza fare l’amore; e le carezzava la spalla con l’indice e il medio, per convincerla a rimanere un altro po’. Non aveva un momento da ricordare, perché non ce n’erano stati. Solo sensazioni, e parole, e odori; la speranza di qualcosa che sfioravano e di cui non parlavano per paura che gli si sgretolasse tra le mani, lasciando il vuoto che lasciano solo le cose che non ci sono mai state. Lo sapevano entrambi, ma a lui essere pazzo di una donna come lei sembrava la cosa più sensata al mondo.

Il ricordo di lei lo riportava a casa e lui, quelle volte, lo lasciava fare. Poi l’aquila scomparve dietro la montagna e con lei, Naìma. Gettò la sigaretta e allungò un braccio sopra la sua testa per staccare dall’albero un ramoscello; lo smussò prima di metterlo in bocca.

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