Vivian Maier

Vivian Maier

 

Quindi, cosa bisogna fare? – chiese al dottore.

Credo che la cosa migliore sia lasciarla in pace.

Mi sta dicendo che dovrei accettare il fatto che mia madre non mi riconosce?

Le sto dicendo, Signora, che purtroppo in questa fase la medicina può fare ben poco, se non aiutarla a restare serena nel suo mondo e aspettare.

Ma questo è assurdo! – sbottò Elena indignata mentre si alzava dalla sedia, quasi avesse voluto sottolineare maggiormente la bassezza di quella conversazione.

Questa è la realtà, mi dispiace – disse il dottore scarabocchiando qualcosa su un pezzo di carta, prima di guardarla dritta negli occhi da sopra gli occhiali – Credo che accettarla sia la cosa migliore per tutti.

Elena si guardò la punta delle scarpe e scoprì che non le piacevano affatto. Si maledì per averle comprate.

Posso vederla? – chiese con un filo di voce.

Si, ma tenga a mente che la cosa non sarà reciproca.

Era malinconia  quella sensazione che le riempiva la pancia mentre percorreva il corridoio dell’ospedale. Sapeva che non doveva permettere a certi pensieri di farsi largo nella sua mente, ma fallì lo stesso. La vita di sua madre sembrava un disegno ben preciso. L’adolescenza rubata da un matrimonio dovuto, le mani rovinate dai detersivi, la giovinezza passata a casa ad aspettare il marito che tornasse da appuntamenti misteriosi controllando allo specchio che il tempo non corresse troppo in fretta. Poi i silenzi – i tanti silenzi – interrotti dalle poche parole sussurrate alla cornetta per aggiornarla sulle condizioni del padre e le notti insonni passate seduta al fianco del marito, fissando la foto della Madonna e stringendo i pugni fino a far sanguinare i palmi delle mani nella speranza che spirasse. Ma lui spirò solo cinque anni dopo e quella donna triste e rugosa riflessa negli specchi non smise neanche un giorno di fissarla. Quaranta interminabili anni in attesa di un cambiamento, che arrivò e si portò via tutte le speranze sospese nel tempo. Prese a uscire di casa e a passeggiare ogni mattina. Faceva dei giri immensi che la riportavano sempre al punto di partenza, ma che le permettevano di fregare il tempo al gioco degli specchi. Poi – proprio durante una delle sue passeggiate – un giorno si accorse di non ricordare la strada di casa. La paura e l’inconsapevolezza si fecero strada mentre osservava un bambino in bicicletta e ne prevedeva maternamente la caduta ormai prossima. Fu una caduta immediata, proprio come quella del bambino.  I ricordi si fecero sempre più lontani e i suoi sforzi sempre più frustranti. Era come se fosse costantemente fuori posto.

Il disegno di una vita –  ripeté Elena tra sé e sé, mentre apriva la porta della camera, afferrando la maniglia con la mano avvolta nella manica del maglione.

Sua madre giaceva a letto, i capelli anarchici sparpagliati sul cuscino troppo alto e lo sguardo inesorabilmente perso in un punto indefinito della parete di fronte. Elena si sedette al suo fianco e la guardò senza dire nulla. Aveva imparato a restarsene immobile, sperando che prima o poi la madre la facesse entrare nel suo mondo. Si immaginava quel letto d’ospedale che correva lungo una discesa, verso un precipizio, e loro due lì sopra, in silenzio. Sua madre che fissava la fine della strada con sguardo beato e Elena che faceva correre gli occhi dal volto di lei al burrone sperando nervosamente in un ultimo incontro.

Ormai erano mesi che sua madre non la riconosceva. Aveva assunto le sembianze di tutte le infermiere dell’ospedale, di cugine, zie e vecchie amiche ormai morte. Cercava di assecondare i deliri, sperando di conoscere la  figura che aveva cambiato così tanto gli occhi di sua madre. Voleva a tutti i costi sapere chi aveva avuto il merito di cancellare quell’alone di tristezza che per tutta la vita le si era accasato sulle palpebre, se fosse esistito realmente o fosse solo frutto della demenza. Qualche giorno prima la madre le aveva sussurrato, lasciando scivolare la mano sopra al lenzuolo fino a toccare il bordo del letto – Ora dovrebbe andarsene, infermiera. Non sarebbe carino che lui la trovasse qui.

Elena era rimasta per un po’ appoggiata allo stipite della porta, ma non era riuscita a cogliere nessun altro frammento di quella storia, se non il pollice sinistro della madre che saltuariamente accarezzava qualcosa di inconsistente sopra la coperta.

Mamma… – sussurrò, sfiorandole il dorso della mano.

Lei afferrò le dita della figlia e trattenne quella carezza.

Sei in anticipo – disse senza distogliere lo sguardo dalla parete e lasciando che un sorriso le deformasse le guance.

Per pochi secondi Elena ebbe la convinzione di condividere qualcosa di bello con sua madre per la prima volta, ma quasi subito si rattristì alla consapevolezza che mai avrebbe saputo cosa fosse. Si liberò dalla debole stretta e uscì dalla porta senza voltarsi per paura di ciò che non avrebbe visto.

Sua madre, pensò, non aveva alcuna idea di dove fosse o di chi avesse di fronte, ma sapeva benissimo chi stava aspettando. Era come se si fosse concessa il lusso di amare davvero qualcuno dopo la morte del marito, ma il suo pudore non le permettesse di incontrarlo al di fuori di un’allucinazione.

La panchina di fronte all’ospedale era occupata da un bambino. Se ne stava seduto, con i piedi penzoloni, a mangiare una fetta di crostata senza curarsi della marmellata che gli si appiccicava sulla punta del naso. Il padre gettò a terra la sigaretta e prese un fazzoletto per correggere quell’imperfezione. Il disegno di una vita – pensò Elena osservando la scena. Infilò le mani nei guanti e sopportò la sensazione irritante della pelle secca a contatto con la lana.

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