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Casali.

Sono le quattro del pomeriggio.

L’aria pesante schiaccia a terra i cani da pastore.

I casalotti se ne stanno seduti all’ombra del castagno, poggiati sul bastone, a parlare, ma neanche troppo.

Guardano verso il Rifugio.

I lavori sono quasi terminati.

– Chissà se ce la faccio a vedellu, stu rifugio aperto. – ci ha detto qualche tempo fa uno di loro – C’agghio na tosse che non me rporta paro.

Dentro il Rifugio gli ultimi voli di segatura formano una leggera nebbia, dalla quale emerge Renato, con l’immancabile bastone e un cappellaccio in testa.

– Persona trista nominata e vista. – dice, poi sorride e si piega in avanti per appoggiarsi al bastone.

Gli piace guardare la gioventù che lavora.

Gli piace guardare la gioventù in generale, lassù, dove per tutta la vita non ne ha poi vista così tanta.

Renato, negli anni in cui faceva la transumanza e passava mesi interi lontano da casa, leggeva e scriveva poesie.

Più che altro, comunque, leggeva.

Leggeva e rileggeva, finché i passi che più gli piacevano non gli restavano in testa.

– Renato, perché non ci racconti ancora quel passo? Quello che ci hai recitato l’altro giorno, che a noi ci è piaciuto un sacco. – gli chiediamo, senza smettere di carteggiare i piedi dell’ultimo letto.

– L’ Adone e il Cavalier Marino? – chiede lui, con gli occhi stanchi che subito si illuminano; e senza aspettare la nostra risposta, inizia a decantare il poema di Giovan Battista Marino, saltando un po’ qua e un po’ là, come la memoria gli suggerisce. – La calma ala tempesta alfin succede, cedono alfin le nevi ale viole, segue la notte il chiaro giorno e riede dopo le nubi e le tempeste il sole. Spesso del pianto è la letizia erede, così stato quaggiù mutar si suole; con tai leggi natura altrui governa e le vicende sue nel mondo alterna.

Parla piano, Renato.

La carta vetrata fa più rumore della sua voce.

Ma, in un attimo, in mezzo alla nebbia di segatura, la carta vetrata smette di levigare, le mani ricadono lungo i fianchi, e la voce di Renato domina finalmente la stanza.

Io guardo Renato, poi guardo gli altri.

Non riesco a guardare me, ma devo avere la stessa espressione che hanno tutti quelli che lo ascoltano estasiati: gli occhi fissi su di lui, il sorriso beoata.

– Il sol che porta a’ miei trist’occhi il giorno non è già questo che levarsi or veggio, seben nel volto suo di luce adorno d’altra luce maggior l’ombra vagheggio. Parta, o partito poi faccia ritorno, ben altro lume ale mie notti io cheggio. Chi crederia che più lucente e bella m’è del’alba e del sol sol una stella?

Vedere Renato che recita a memoria i passi dell’Adone, stare ad ascoltarlo in mezzo a quella nebbia di segatura, mi ha fatto venire da piangere.

Qui dovrei forse fermarmi; smettere di scrivere, perché non lo saprei dire.

Eravamo in mezzo alla segatura. C’era solo questo Marino, che si chiamava come mio nonno, e che ha scritto questo poema nel 1600, che poi, in un periodo poco chiaro, del 1900 era stato nelle mani di Renato un’infinità di volte, mentre portava le pecore al pascolo, e gli faceva compagnia; così tanta compagnia, che lui aveva finito per imparare a memoria i passi che più gli piacevano.

– Quante volte l’hai letto, Renato?

– Tutte le volte che me ne andava.

Allora forse basterebbe che ce ne andasse, per rubare tanta bellezza e tenercela dentro; e secondo me eravamo tutti così rapiti dal decantare di Renato, non solo per la bellezza e i momenti di solitudine che si portava appresso, ma perché sembrava un eco lontano di un mondo che si aggrappa per non precipitare, che si sforza di resistere, con la memoria, con gli occhi che vogliono illuminarsi ancora una volta, contro la corsa in avanti senza senso di tutto quest’altro mondo, che non ha tempo per leggere, figurarsi rileggere e imparare a memoria, e dove troppe volte la bellezza ci sfugge.

Guardavamo Renato, ascoltavamo Renato, e avevamo nostalgia di qualcosa che non abbiamo potuto vedere, di un mondo di cui abbiamo solo sentito parlare i nostri nonni, durante i pranzi, seduti a capotavola, con le mani giunte.

– Ce la dici ancora, Renato? – abbiamo chiesto; forse tutti insieme, forse uno per volta, chi se lo ricorda più.

– Se tenete pazienza. – ha risposto lui, e ha ricominciato, appoggiato al bastone, con il cappello, gli occhi che si illuminano, e tutto il resto. – Sorse fosca la notte e’l pigro mondo sotto l’ali pacifiche coverse. Chiuse sonno tranquillo, oblio profondo mill’occhi in terra e mille in ciel n’aperse; forse fur di que’ duo le luci belle che, spento il sole, illuminar le stelle.

27.06.2016

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