(Gli Elpris insieme ad Andrea Mei)

 

Qualche tempo fa mi è capitato di intervistare gli Elpris per Bemolle, un nuovo Format ideato e curato da me che spero vedrà la luce quanto prima. Gli Elpris, per chi non li conoscesse, hanno una formazione particolare, composta da Sebastiano Pagliuca (autore e chitarrista, jeans e maglione di lana, un po’ Seattle anni ’80), Francesco Franck Coacci (bassista e icona emo del gruppo – una sorta di Demoralizzatore post-moderno), Luca Chiurchiù (batterista che sbatte col sorriso di un bambino), Matias Iobbi (voce e capelli), con l’aggiunta di Federico Cippitelli (organetto e folkabbestia!) e Giandomenico Cicchetti (violinista sul palco e uomo di poche parole nella stanza).

 

Così in un pomeriggio che si faceva sera ho chiuso in una stanza dello studio di registrazione Potemkin di Andrea Mei – caro amico, persona piacevolissima, nonché produttore dell’omonimo album degli Elpris – sei musicisti, un musicistacheèancheautoreeproduttore e una troupe televisiva, che si è dimostrato l’unico salvagente attraverso cui i discorsi nati e morti sul nulla si sono aggrappati per sopravvivere. Mentre questi sei ragazzi che sembravano essere usciti da un fumetto di Jamie Hewlett suonavano e inventavano melodie temporanee destinate a morire e resuscitare, forse, più in là, in qualche pomeriggio stanco di prove, e parlavano degli esami mancanti alla laurea, delle ragazze e delle birre che rimanevano per l’intervista, io me ne stavo seduto in un angolo e pensavo che avrei tanto dovuto continuare a suonare la chitarra e sprecare i miei sedici anni in maniera diversa invece di fermarmi al Barrè, allora, e al bar, più avanti. Forse ho iniziato a scrivere perché non ho mai iniziato a suonare. Un po’ come scegliere la morte di cui morire per vivere.

 

Comunque. Le solite frasi, poi, nette, biascicate, a rompere il tempo improvvisato: Pronti, camere pronte, le luci che si accendono, ci mettiamo in posizione?, spegni la sigaretta, nascondi le birre che è meglio non farle vedere, motore partito, bla bla bla prima…Azione, CIAK.

Vedere l’espressione dei loro visi discretamente sconvolta quando gli hanno intimato di mollare le birre da qualche parte e riprenderle una volta finita l’intervista mi ha tranquillizzato. Non sarei stato a mio agio a parlare con un gruppo di musicisti che in grado di relazionarsi tranquillamente senza una birra in mano; credo che sia una sorta di deformazione professionale da disagio, che non si può fare a meno di assecondare. Comunque io la mia birra la tengo saldamente in mano, tanto sono fuori campo.

 

Dopo tutto questo preambolo, sarò conciso nel dirvi quello che ci siamo detti, perché poi ci penserà il servizio (che andrà in onda su MCNet, in data ancora da definire) ad essere esauriente e soprattutto perché ci siamo detti un sacco di cose che non significano nulla. Elpris, ad esempio. Con la prima domanda ho cercato di indagare sulle origini del gruppo e del nome. La prima domanda è sempre la più banale, un po’ come quando incontri per strada la ragazza che ti piace e non riesci a inventarti di meglio di quel “come va?” e due secondi dopo vorresti spararti una siringa d’aria in endovena (giusto per usare la terminologia Elpris), e la maggior parte delle volte serve solo a rendere meno interessante il tutto: se doveste scegliere una storia originale per una band tra 1) eravamo un gruppo di studenti universitari con la passione per la musica che un giorno, tra una sbornia e l’altra, abbiamo deciso di prendere a calci in culo la noia mettendo su un gruppo il cui nome non ha assolutamente senso, o 2) in preda a una visione mistica da funghetti allucinogeni, mentre eravamo lunghi in un qualche luogo sperduto del centro Italia (ma poteva essere benissimo il centro America), abbiamo visto un personaggio avvicinarsi e fermarsi di fronte a noi per dirci che il suo nome era Elpris e noi avremmo dovuto assolutamente mettere insieme le nostre forze e suonare in suo onore per il resto della vita, voi quale scegliereste? Ma la realtà è quasi sempre deludente, ed è per questo che gli Elpris hanno deciso di esistere: per sconfiggerla, per eliminare le prime domande e tenere lontane quelle siringhe d’aria. Stando ai fatti comunque, gli Elpris sono un gruppo di studenti universitari con la passione per la musica che un giorno, tra una bevuta in cantina e l’altra, hanno deciso di prendere a calci in culo la noia e uscire allo scoperto formando un gruppo il cui nome non ha assolutamente senso e che poi hanno avuto la fortuna di incontrare sulla loro strada anarchica Andrea Mei e Rachele Paganelli (la loro fantastica manager, che sembra uscita da un film dei fratelli Coen).

Così parliamo un sacco del disagio che sta alla base di ogni forma di narrazione e di comunicazione, di cui non si può fare a meno e allo stesso tempo bisogna costantemente sconfiggere, come un peso che galleggia tra la bocca dello stomaco e la gola e non va né su né giù. Ci perdiamo un sacco di tempo dietro queste storielle di ansia e disagio – o dietro il cercare di spiegare in termini razionali alcune sensazioni come il pizzicorio che nasce improvvisamente in mezzo agli occhi (tra naso e fronte) quando beviamo una bevanda gassata e che Sebastiano ha racchiuso in Frizza – e lo trovo adorabile.

 

Poi improvvisamente ci ricordiamo delle birre che si stanno scaldando tristemente in un angolo e ci diamo una mossa.

 

(Gli Elpris al Terminal di Macerata)

 

Ci diciamo tutto d’un fiato – come sono tanto bravi a fare gli Elpris – dell’album e dei testi, dei due anni di produzione e del lavoro enorme fatto da Andrea Mei, della disciplina necessaria per portare tutta l’esuberanza di un gruppo giovane e scalmanato in un sistema chiamato cd e di tutta l’indisciplina che fa sempre comodo invece in un rapporto sincero che può nascere tra un produttore e i suoi figliocci. Sebastiano e Federico mi raccontano l’origine di Frizza e, soprattutto, di Traparentesi, che chiude l’album in maniera sontuosa e struggente e ci ricorda che c’è sempre un filo nascosto nella testa per tirare via le paure; basta solo trovarlo. Questa cosa del tirare via le paure semplicemente utilizzando un filo è un’immagine che a me è piaciuta un sacco, non so a voi (e neanche me ne importa, in realtà). Nell’era della psicosi da social, trovare quel filo e tirarlo semplicemente potrebbe essere un buon punto di partenza, ecco.

Insomma, questi sei ragazzacci avrebbero potuto fare altro nella vita, ma stanno decidendo di fare quello che fanno e io ne sono contento, perché nel loro primo album tirano fuori dei passaggi come  le vertigini sugli strapiombi fanno vibrare (Montagne), Megalopolì so che tu se lì tra gli sguardi dei passanti ininterrotti / così sono morte fragili e affogate tutte le farfalle dolci che facevi nel mio ventre (Megalopolì),  la cresta dei pensieri mangio ortica a colazione quanto è amara diomadònna e continuo a farmi male (Frizza) e c’è tutto un intreccio di immagini disagiate e sconfortanti che si trasformano subito in qualcosa di bello e divertente. E ben venga qualcuno che ci faccia divertire raccontandoci di ragazzi disperati e depressi che si lanciano in imprese assurde e degradanti nell’era in cui la stragrande maggioranza dei ragazzi si lancia in imprese assurde affatto divertenti. Gli Elpris fanno divertire cantando il disaggio. Un disagio che fa ballare, bisogna muoversi e scrollarselo di dosso, non si riesce a stare fermi neanche per pochi minuti; anche chi non sa e non vuole ballare alla fine si ritroverà a battere le mani, un piede, o a buttarsi in una danza disarmonica, e va bene così, perché la felicità è sempre disarmonica e impacciata.

A me gli Elpris stanno simpatici, non so se si è capito. Ma non è che mi stanno simpatici così, per partito preso. No. Mi sono simpatici perché ci stanno provando. E ci stanno provando senza passare per la strada più facile della cover; ci stanno provando con dei pezzi scritti e musicati da loro, con i loro difetti e la loro sfrontatezza, con quel pizzico di ubriachezza e irresponsabilità che ci vuole, con un violino che sembra piangere per gran parte dell’album poi te lo ritrovi allegro, con un organettista che farebbe ballare anche lo zoppo più asociale, con un basso e batteria duri e divertiti che sembrano non voler crescere, con una chitarra acustica che è sempre una bellezza e con una voce che è tutto un danzare nebuloso di ricci. Il tutto armonizzato da un produttore come Andrea Mei, che non saprei come descrivere per quante storie di vita si porta appresso.

 

Ho provato a definire gli Elpris, con la consapevolezza di non esserci riuscito. C’è molta confusione intorno alla loro nascita, alla scelta del nome, al genere dentro cui rinchiuderli per etichettarli (che è sempre tristemente di moda), al perché hanno deciso di fare musica nel Paese delle non-opportunità e al perché io stia cercando di spiegarvi e raccontarvi tutto questo. In realtà, tutti coloro che sentono ancora la necessità di raccontare qualcosa, di chiudersi in una stanza e suonare-parlare-sudare, che vogliono inseguire l’inutile e che sentono la necessità di provarci e di marcirci sopra (tutti quelli che a me e agli Elpris interessano davvero, in sostanza), non proveranno neanche a trovare tutte le risposte mancanti. Perché, come direbbe il buon Frank(Accio): – Fondamentalmente non ha senso. Non ha assolutamente senso.

Per tutti gli altri, ci sono le cover band.

L.

 

(Qui sotto cercano di presentare il loro album omonimo in uscita il 6 Novembre 2015)

 

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