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Ieri era la Festa dei nonni.
Io ero a Casali di Ussita.
Mi sono svegliato con le nuvole basse, che mi hanno accompagnato per tutto il giorno. E il freddo. Diverso. Invernale.
Non c’è più nessuno.
Solo i cani, le pecore, e i nonni del paese.


Domenico è uscito dal suo cancelletto in mano con il bastone e in testa un cappellino di lana verde e giallo.
Mi ha salutato alzando in aria il bastone e poi è andato a sedersi sotto il castagno come tutti gli altri giorni, non curante del freddo e della pioggerellina intermittente.
Giovanni è passato al Rifugio e ha chiesto se fosse finalmente arrivato quel pullman di suore. Ci dice sempre che verranno a mangiare da noi un centinaio di suore e che arriveranno con questo famigerato pullman, che però continua a non vedersi. – Arriverà. – ci dice, e se ne va ridendo. Non è mai serio, Giovanni. Scherza sempre. Arriva tutto ingobbito, scherza e se ne va. È il suo modo di affrontare la vita, o la vecchiaia. Non lo so.
Dopo pranzo si fa vedere Antonio. Entra al Rifugio molto lentamente. Un caffè corretto con la grappa. Il solito. Neanche parla, Antonio. È stanco. Porta una camicia e un maglione di lana color senape e delle scarpe nere con la chiusura a strappo. – Come va, Antò? – gli chiedo. Ma la mia domanda non raggiunge le sue orecchie. Mi guarda e sorride dolcemente. Ha gli occhi pieni di una tristezza che viene da chissà quanto lontano. Beve il suo caffè corretto e esce com’è entrato: senza dire niente.
Mi siedo di fuori e aspetto. Ogni tanto leggo. Altre volte mi lascio attraversare da quel niente e basta. Il silenzio, i campanacci delle pecore, le nuvole che si aprono dalle parti di Macereto, qualche raggio che prova a sbattere contro le montagne prima di essere coperto di nuovo.
– Ciao. – dice Renato scendendo verso la sua macchina. Ha una camicia a scacchi, un giubbettino nero e l’immancabile fascia sulla testa per tenere calde le orecchie. – Dove vai, Renato? – gli chiedo. – A messa. – mi risponde. Da quando il terremoto ha reso inagibile la sua chiesa di Casali, deve sempre prendere la Panda e scendere a Ussita per la messa.
Tutte queste conversazioni che rimangono sospese nell’aria, che non si sa bene dove iniziano e dove finiscono e però ci sono. Un gesto molte volte. Solo un gesto. O poche parole. Quelle che bastano. A volte anche meno. Tutti questi nonni che vivono quassù da sempre e che mi fanno pensare ai miei. Con la loro stanchezza, i loro silenzi, il loro essere burberi e dolci e basta. Tutti questi nonni che mi salutano e se ne vanno e chissà se li rivedrò ancora una volta. Tutti questi nonni a cui mi viene voglia di raccontare come sta andando la mia vita e di chiedere se secondo loro sta andando nel verso giusto. Magari qualcuno di loro finirebbe col chiamarmi “ragazzo”, come mio nonno, o “picchio”, come ha sempre fatto mia nonna.
Mentre bevo una birra di fuori e mi godo un po’ il freddo, torna Antonio. Non dice nulla, come al solito, e si siede su una sedia vicino alla mia. – Volevo annà a casa, e poi… – mi dice, e sorride mettendo in mostra il suo unico dente. Poi ha visto che ero seduto qui fuori e allora si è fermato. Questo intende. In montagna quando si incontra qualcuno seduto da solo, di solito ci si siede accanto a lui, anche solo per condividere il silenzio. La testa gli ricade sul petto. Ha sonno, Antonio. È stanco. Vuole dormire. Però ora starà un po’ lì con me. Dopodiché andrà a casa e si mangerà la sua solita fetta di pane, prima di entrare nel letto. Non è bravo a cucinare. Allora mangia poco. Si arrangia. Lassù, da solo, a 1100 metri, a ottantaquattro anni, può solo arrangiarsi. – Auf wiedersehen. – dice, sorride e si alza. È stato in Germania, Antonio. Per lavoro. Tanti anni fa. Me l’ha raccontato una volta, o magari più di una. Non mi ricordo bene. Si incammina verso casa. Lentamente.

 

03.10.2016

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